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Volti Antichi

Volti Antichi

scritto da Giacomo Bellisi 22 febbraio 2018

Per anni (quasi 10 ormai) ho pensato a cosa fare di questa piccola raccolta di fotografie scattate a Favara per un esame universitario.

Tacciate di imperizia e totale assenza di tecnica da un docente sufficientemente stronzo da non prendersi la briga di leggere la relazione in un corso di laurea in lettere moderne, sono rimaste nel mio pc, una volta superato l’esame. Le ho condivise sul mio portfolio perché rimangono, se non tecnicamente, almeno a livello sentimentale, uno dei lavori più belli che io abbia mai realizzato.

Penso che questo blog, al di là della mostra che più volte mi è stato proposto di fare e che non so se verrà mai realizzata, sia il posto più adatto per condividerne alcune insieme alla relazione:

Desideroso di verità. Bisognoso di camminare in un mondo più tangibile e meno freneticamente effimero di quello cittadino in cui conduco gran parte della vita. Spinto da questi sentimenti ed anche dalla volontà di guardare nel mio passato decisi di partire per Favara, in provincia d’Agrigento, nella speranza di poter percorrere le stradine di “una delle sorelle Sutera, tanto bruttine ma tanto ricche” del Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa.

Favara è il paese (adesso città, ma, nel profondo, ancora paese) in cui sono nati gli uomini da cui discendo, seguendo il lignaggio più illustre, quello materno. Favara, al momento della mia partenza, era un luogo mitico, ancora puro, ancora identico a quello che avevo lasciato dodici anni prima, senza più posare sulle sue polverose stradine le mie scarpe.
Con la mia macchina fotografica, ancora prima di arrivare, sognavo di immortalare qualcosa che potesse avvicinarsi alle fotografie scattate da Verga nella sua Vizzini. Fantasticavo su quelle vie, così differenti da quelle della mia cittadina Palermo, e già immaginavo le foto da scattare. I ricordi, anche dopo dodici anni, erano nitidi; penso che, proprio a causa della nitidezza dei miei ricordi, fu grande la delusione che provai entrando nella cittadina. I ciottolati del manto stradale sono stati sostituiti dal più moderno asfalto, le vecchie palazzine sono state affiancate da moderne palazzine dall’intonaco uniforme e le automobili in circolazione, che ricordavo essere relativamente poche, sono aumentate a dismisura.

Camminando mi resi conto che le fotografie che avevo sognato di scattare, erano possibili solo nella mia mente; quelle fotografie vivevano dentro i miei ricordi e lì sarebbero rimaste, senza poter essere osservate da altri. Delusione.

Ben presto, però, scoprii che il passato, così autentico, che io ricercavo non si trova più nell’architettura, ormai ibridata dalla modernità, ma nelle rughe di alcuni volti che, indubbiamente, appartengono a un tempo che si sta estinguendo. Anche questi volti, volti antichi, volti segnati dal sole e dalla fatica di un lavoro duro, stanno scomparendo, ma ci sono, esistono ancora, ed io dovevo testimoniarli, non potevo lasciare che sparissero, come era scomparsa la Favara che io ritrovavo solo nei miei ricordi da bambino.

Smisi così di cercare architetture e andai alla ricerca di persone che appartenessero ad un passato lontano, lontane dalla mia, dalla nostra, modernità. In Piazza Cavour, la piazza principale di Favara, trovai alcuni di quei volti; uomini che avevano lavorato nelle zolfare e nella miniera della Ciavolotta, reduci di guerra: i loro volti erano specchio di ciò che loro avevano vissuto, di ciò che loro e soltanto loro portavano con sé e che un giorno non ci sarà più. Questi volti non ci saranno più e, col passare del tempo, saranno sempre più rari, perché il tempo della modernità è giunto anche lì; adesso il lavoro è meno duro, la vita più comoda, ed anche le mani del contadino di oggi sono meno callose di quelle del contadino di ieri.

Sono rimasto estremamente affascinato nell’osservare i vecchietti seduti in cerchio nella piazza, a piccoli gruppetti, il tempo sembrava essersi dilatato enormemente.
La loro diffidenza nei miei confronti dura poco ed alcuni sono contenti di farsi fotografare: “minni tirassi quanti ni vole di sti fotografie” (sic!).

La ricerca dei volti che voglio documentare, scattate le foto in Piazza Cavour, diventa molto più complessa, fatta di giri casuali per il centro e lunghi appostamenti, perché non voglio solo i loro volti, voglio che questi siano il più naturali possibili e, davanti ad una macchina fotografica, la loro espressione cambia.

Ben presto mi rendo conto che fotografare uomini è molto più semplice rispetto al fotografare donne. È nella ricerca di una donna che sia antica come gli uomini che ho fotografato che mi rendo veramente conto di essere davanti ad una cultura e ad un sistema di valori assolutamente differente dal mio. Le donne davanti la macchina fotografica fuggono, non è rispettabile farsi fotografare. Mi sento in dovere di documentare, purtroppo solo per iscritto, ciò che è accaduto al “curtiglio di sette curtiglia” (cortile dei sette cortili, oggi Farm Cultural Park, ma all’epoca delle fotografie si trattava di un agglomerato di casette strette l’una all’altra nel centro di Favara N.d.A.): vedendo una donna che dimostrava almeno novant’anni, dai capelli bianchi come la neve, vestita totalmente di nero, comprese le scarpe e le spesse calze, con degli occhi azzurro ghiaccio che certamente avevano visto entrambe le grandi guerre, le chiedo se fosse disposta a farsi fotografare. Lei non mi sente, chiama il figlio (che dimostra una sessantina d’anni) ed a lui riformulo la domanda, la risposta è scollegata rispetto alla mia domanda: “mia madre non è della stessa opinione, arrivederci”. Rifletto sull’opinione, viviseziono la parola in ogni suo possibile significato. Questa opinione non è un’opinione, questa opinione è l’Opinione. È, vista con i loro occhi e non con i miei, “la nostra cultura, una cultura antica e forgiata da anni ed anni di tradizione, diversa dalla vostra cultura moderna”. Inizialmente quest’opinione mi aveva infastidito, devo essere sincero, con me e con chi legge. Adesso, invece, comprendo l’opinione, l’accetto, perché è assolutamente coerente con il modus vivendi di questa gente antica. Mi rammarico di non poter riosservare la mancata fotografia, mi dispiace il non poter osservare ancora quella donna così fine e riservata, ma, comunque, ne porto dentro di me l’immagine e non scorderò mai quel viso così rugoso e autentico.

È soltanto dopo aver compreso l’Opinione che posso rileggere la quarta fotografia (anche in galleria è la quarta N.d.R.) e darle un significato più profondo rispetto a quello che le avevo dato al momento dello scatto. I due vecchietti che, incontrandosi all’angolo della strada, guardano i necrologi e li commentano per una decina di minuti, non stanno semplicemente prendendo atto della morte di qualcuno; il loro è un rituale che si svolge da sempre, la morte ha un significato diverso rispetto a quello che assume nella mia Palermo o in qualsiasi altra città completamente assorbita nella modernità. Nel nostro moderno modo di vivere la morte scivola via, velocemente, quasi inosservata dai più, sofferta solo da chi è vicino al defunto; nel tempo dilatato e lento della Favara che io ho visto, invece, la morte viene collettivamente analizzata, commentata e sofferta, coerentemente alla loro cultura ed alla cultura dei loro padri.

È sempre l’Opinione a guidarmi nello scatto n°13 (fotografia non presente in galleria per possibili problemi di autorizzazioni N.d.R.), la posizione della donna non è casuale, è assolutamente coerente con l’antica cultura; lei sta seduta sull’uscio, non è né dentro né fuori, solo il piede destro fa capolino in strada. Per una donna antica lo stare all’esterno “non sta bene”, non è decoroso: la strada è degli uomini, la casa della donna. Questo atteggiamento mi fa comprendere il perché le donne antiche, quelle vestite di nero, con un foulard in testa, ugualmente nero, camminano veloci in strada, sono difficili da fotografare, la strada non è il loro ambiente e quando mi vedono accelerano il passo, perché io, con la mia macchina fotografica, rappresento un pericolo: “non sta bene” farsi fotografare, per di più in strada.

La Favara che ho visto e vissuto non è fatta solo di vita cittadina, con questa si sposa la vita di campagna, aspra e calda. Anche qui trovo una commistione di vecchio e nuovo, dove il vecchio sopravvive solo in certi uomini, anch’essi uomini antichi. È nel baglio Carlino (foto in evidenza e ultima nella galleria N.d.R.) che scopro la cultura calda della campagna. Dino Carlino, proprietario terriero, lavora la terra, giorno dopo giorno, seguendo il tempo ed i ritmi naturali e ciclici della campagna, non porta orologio, lì non serve; nel suo viso scorgo la forza e la fierezza di un uomo vissuto e temprato dal duro lavoro; ha più di ottant’anni, ma le sue mani e le sue braccia sono ancora forti e mi sembra che traggano la forza dalla scura terra che coltiva e che allo stesso tempo lo stanca con il lavoro che gli richiede; entrambi, l’uomo e la terra, traggono sostentamento l’uno dall’altro, in una continua dialettica senza tempo.

Dopo questo viaggio mi rammarico di non aver segnato i nomi di tutte le persone che sono entrate nell’obiettivo della mia macchina fotografica. Unica consolazione a questo mio grave errore è il fatto che i loro volti, così, senza un nome, non sono soltanto loro, sono i volti del passato, sono i volti dei loro padri e dei padri dei loro padri; sono testimonianza di tutti quelli che, come loro, hanno, ed hanno avuto, un volto Antico.

Per quanto ancora saranno visibili per le strade di Favara (o di qualsiasi altro posto simile) volti antichi come quelli che ho avuto la fortuna di fotografare? Per quanto tempo quest’opinione-cultura sopravvivrà? Quanto tempo ci vorrà prima che il tempo della modernità spazzi definitivamente via il tempo lento e ciclico che ho avuto modo di vivere ed assaporare?

 


© Giacomo Bellisi – È severamente vietato riprodurre, distribuire, esporre in pubblico, rappresentare o modificare le fotografie, isolate da questo articolo (e la relativa licenza), senza aver ottenuto un consenso esplicito dell’autore.

Volti Antichi was last modified: marzo 2nd, 2018 by Giacomo Bellisi

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Giacomo Bellisi

One man army, o coltellino svizzero che dir si voglia, oltre ad essere un graphic designer e titolare di un'agenzia di comunicazione, sono anche un istruttore di sala attrezzi e di allenamento funzionale (Ci sarebbero anche barman scarso e esperto nelle tecniche di valorizzazione delle aree museali, ma queste sono altre storie).

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